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Corte d'Appello di Bologna > Risarcimento del danno
Data: 05/02/2004
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 47/04
Parti: Photo Service s.r.l. / Ede L.
RISARCIMENTO DANNO DA DEMANSIONAMENTO - PROVA DELL'ESISTENZA DEL DANNO - APPREZZAMENTO DI ELEMENTI PRESUNTIVI: SUFFICIENZA.


Rispetto alla tesi secondo cui il lavoratore demansionato sarebbe tenuto a fornire la prova sia dell'esistenza del danno sia della misura dello stesso, i giudici della Corte d'Appello di Bologna hanno ritenuto di aderire al più recente orientamento della Corte di Cassazione secondo cui dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione o successivamente acquisite può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 cod. civ. ma anche la violazione di un diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 2 e 3 della Costituzione. Da ciò deriva il diritto dell'interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione e la cui determinazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto (v. Cass. n. 125553/03 con richiami ad altre decisioni della stessa Corte). Nel caso specifico, l'esistenza del danno risarcibile era desunta in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio, relativi alla particolare natura ed alla non ordinaria entità nonché alla durata del demansionamento subìto (per oltre un anno) e veniva conseguentemente considerata legittima la liquidazione equitativa del danno quantificata dal primo giudice in 50 milioni di vecchie lire




Corte d'Appello di Bologna > Risarcimento del danno
Data: 19/03/2002
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 69/02
Parti: Poste SpA / Luigina A.
ESCLUSIONE DALLA PROCEDURA DI SELEZIONE - VIOLAZIONE DELLE REGOLE DI CORRETTEZZA E BUONA FEDE - RI CHIESTA DI RISARCIMENTO DANNI DA PERDITA DI CHANCHES - NECESSITA' DELLA PROVA DEL NESSO CAUSALE TRA ASSERITO INADEMPIMENTO ED EVENTO DANNOSO.


Un gruppo di dipendenti dell'Area Operativa convenivano in giudizio Poste Italiane SpA, lamentando l'illegittimità della loro mancata ammissione alla selezione per Quadri di II livello. In particolare affermavano che il datore di lavoro, sulla base di scelte discrezionali arbitrarie, si sarebbe discostato dai criteri previsti contrattualmente, introducendone altri in violazione dei principi di correttezza e buona fede. Il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda e Poste Italiane SpA proponeva appello. La Corte d'Appello di Bologna, sotto il profilo sostanziale, riconosceva che in caso di inosservanza delle regole di cui agli articoli 1175 e 1375 cod. civ. (principi di buona fede e correttezza) può riconoscersi il risarcimento dei danni per la perdita delle possibilità di promozione (cd. perdita di chance) determinati «applicando al parametro, costituito dalle retribuzioni percipiende e percepite, un coefficiente di riduzione che di tale probabilità tenga conto, ovvero adoperando altro criterio equitativo purché adeguatamente motivato (v. Cass. n. 158/94; n. 2167/96; n. 11522/97)». Peraltro ha osservato come, sul versante processuale, anche ove non risultassero osservati i principi di correttezza e buona fede, ciò non sarebbe sufficiente, da solo, a far ritenere fondata la domanda del lavoratore al risarcimento dei danni per perdita di chances sulla base del tasso di probabilità che il lavoratore aveva di risultare vincitore, ove la selezione fosse avvenuta in modo corretto e trasparente (pur essendo il canone probabilistico riferito ad un danno certo, e quindi astrattamente utilizzabile per la «quantificazione del danno nel più generale ambito della liquidazione equitativa»: così Cass. n. 15810/01; n. 8468/00; n. 8132/00; n. 2881/98). In realtà, secondo la Corte, i lavoratori - sui quali gravava l'onere di provare il nesso di causalità tra l'asserito adempimento e l'evento dannoso - avrebbero dovuto indicare gli elementi (il posto occupato in graduatoria, i titoli di studio, il curriculum professionale e quant'altro) idonei a far ritenere che il regolare svolgimento delle procedure selettive avrebbe comportato, per ciascuno di loro, una effettiva e concreta possibilità di vittoria. Non avendolo fatto, e non avendo neppure indicato i candidati non in possesso dei requisiti richiesti ed ammessi alla seconda fase di selezione (precludendo, secondo la Corte, ogni possibilità di compiere una valutazione comparativa fra la loro posizione e quella dei colleghi ammessi al colloquio) si sarebbero preclusi la possibilità di ottenere il richiesto risarcimento.

Un gruppo di dipendenti dell'Area Operativa convenivano in giudizio Poste Italiane SpA, lamentando l'illegittimità della loro mancata ammissione alla selezione per Quadri di II livello. In particolare affermavano che il datore di lavoro, sulla base di scelte discrezionali arbitrarie, si sarebbe discostato dai criteri previsti contrattualmente, introducendone altri in violazione dei principi di correttezza e buona fede. Il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda e Poste Italiane SpA proponeva appello. La Corte d'Appello di Bologna, sotto il profilo sostanziale, riconosceva che in caso di inosservanza delle regole di cui agli articoli 1175 e 1375 cod. civ. (principi di buona fede e correttezza) può riconoscersi il risarcimento dei danni per la perdita delle possibilità di promozione (cd. perdita di chance) determinati «applicando al parametro, costituito dalle retribuzioni percipiende e percepite, un coefficiente di riduzione che di tale probabilità tenga conto, ovvero adoperando altro criterio equitativo purché adeguatamente motivato (v. Cass. n. 158/94; n. 2167/96; n. 11522/97)». Peraltro ha osservato come, sul versante processuale, anche ove non risultassero osservati i principi di correttezza e buona fede, ciò non sarebbe sufficiente, da solo, a far ritenere fondata la domanda del lavoratore al risarcimento dei danni per perdita di chances sulla base del tasso di probabilità che il lavoratore aveva di risultare vincitore, ove la selezione fosse avvenuta in modo corretto e trasparente (pur essendo il canone probabilistico riferito ad un danno certo, e quindi astrattamente utilizzabile per la «quantificazione del danno nel più generale ambito della liquidazione equitativa»: così Cass. n. 15810/01; n. 8468/00; n. 8132/00; n. 2881/98). In realtà, secondo la Corte, i lavoratori - sui quali gravava l'onere di provare il nesso di causalità tra l'asserito adempimento e l'evento dannoso - avrebbero dovuto indicare gli elementi (il posto occupato in graduatoria, i titoli di studio, il curriculum professionale e quant'altro) idonei a far ritenere che il regolare svolgimento delle procedure selettive avrebbe comportato, per ciascuno di loro, una effettiva e concreta possibilità di vittoria. Non avendolo fatto, e non avendo neppure indicato i candidati non in possesso dei requisiti richiesti ed ammessi alla seconda fase di selezione (precludendo, secondo la Corte, ogni possibilità di compiere una valutazione comparativa fra la loro posizione e quella dei colleghi ammessi al colloquio) si sarebbero preclusi la possibilità di ottenere il richiesto risarcimento.

Un gruppo di dipendenti dell'Area Operativa convenivano in giudizio Poste Italiane SpA, lamentando l'illegittimità della loro mancata ammissione alla selezione per Quadri di II livello. In particolare affermavano che il datore di lavoro, sulla base di scelte discrezionali arbitrarie, si sarebbe discostato dai criteri previsti contrattualmente, introducendone altri in violazione dei principi di correttezza e buona fede. Il Tribunale di Bologna accoglieva la domanda e Poste Italiane SpA proponeva appello. La Corte d'Appello di Bologna, sotto il profilo sostanziale, riconosceva che in caso di inosservanza delle regole di cui agli articoli 1175 e 1375 cod. civ. (principi di buona fede e correttezza) può riconoscersi il risarcimento dei danni per la perdita delle possibilità di promozione (cd. perdita di chance) determinati «applicando al parametro, costituito dalle retribuzioni percipiende e percepite, un coefficiente di riduzione che di tale probabilità tenga conto, ovvero adoperando altro criterio equitativo purché adeguatamente motivato (v. Cass. n. 158/94; n. 2167/96; n. 11522/97)». Peraltro ha osservato come, sul versante processuale, anche ove non risultassero osservati i principi di correttezza e buona fede, ciò non sarebbe sufficiente, da solo, a far ritenere fondata la domanda del lavoratore al risarcimento dei danni per perdita di chances sulla base del tasso di probabilità che il lavoratore aveva di risultare vincitore, ove la selezione fosse avvenuta in modo corretto e trasparente (pur essendo il canone probabilistico riferito ad un danno certo, e quindi astrattamente utilizzabile per la «quantificazione del danno nel più generale ambito della liquidazione equitativa»: così Cass. n. 15810/01; n. 8468/00; n. 8132/00; n. 2881/98). In realtà, secondo la Corte, i lavoratori - sui quali gravava l'onere di provare il nesso di causalità tra l'asserito adempimento e l'evento dannoso - avrebbero dovuto indicare gli elementi (il posto occupato in graduatoria, i titoli di studio, il curriculum professionale e quant'altro) idonei a far ritenere che il regolare svolgimento delle procedure selettive avrebbe comportato, per ciascuno di loro, una effettiva e concreta possibilità di vittoria. Non avendolo fatto, e non avendo neppure indicato i candidati non in possesso dei requisiti richiesti ed ammessi alla seconda fase di selezione (precludendo, secondo la Corte, ogni possibilità di compiere una valutazione comparativa fra la loro posizione e quella dei colleghi ammessi al colloquio) si sarebbero preclusi la possibilità di ottenere il richiesto risarcimento.

Corte d'Appello di Bologna > Risarcimento del danno
Data: 22/02/2010
Giudice: Brusati
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 1115/09
Parti: BNA – Banca Antoniana Popolare Veneta / Giuseppe M.
RISARCIMENTO DANNI DA MOBBING – VIZIO DI ULTRAPETIZIONE - DANNO ALLA PROFESSIONALITA’ E DANNO ALLA SALUTE – CRITERI DI LIQUIDAZIONE


Art. 2103 c.c.

 

Art. 2087 c.c.

 

Il Tribunale di Forlì aveva deciso sul caso di un dipendente vittima di un trasferimento illegittimo da Forlì a Rimini con contestuale demansionamento, richiamando l’istituto del mobbing  “con conseguente responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c.” e riconoscendo al lavoratore il relativo risarcimento del danno (definito “danno esistenziale”) a seguito di CTU del dott. Ege.

La Corted’Appello di Bologna riforma in parte la decisione (anche per motivi processuali) affrontando diffusamente,  con la sentenza in commento, tutte le connesse problematiche.

Dopo aver accolto l’eccezione – proposta con appello principale dalla Banca – di nullità della CTU per avere il consulente d’ufficio convocato presso il suo studio il lavoratore senza preventivamente avvisare il CTP della Banca, ha esaminato l’ulteriore eccezione preliminare di ultrapetizione per avere il lavoratore in primo grado, nell’allegazione dei fatti ed articolazione delle conseguenti domande, fatto riferimento solo ed esclusivamente al demansionamento.

 

DEFINIZIONE DEL MOBBING

 

Secondo la Corte “manca in tale atto introduttivo di giudizio non solo ogni riferimento espresso alla condotta mobbizzante tenuta (secondo la sentenza impugnata) dalla Banca datrice di lavoro ma anche e soprattutto ogni allegazione in ordine ai fatti costitutivi di tale fattispecie come individuati dalla più recente giurisprudenza di legittimità, vale a dire (e detto in estrema sintesi, anche per evitare il rimprovero di fare una sorta di trattatello in materia o anche solo un più semplice mini cahier du mobbing pluralità di fatti, in sé legittimi o non legittimi, protratti nel tempo unificati (se così si può dire) dalla loro finalità illecita (id est l’intento persecutorio di cui parla la sentenza n. 3785/2009 della Corte di Cassazione o la volontà di perseguire ed emarginare il dipendente stesso di cui si legge nella sentenza n. 22858/2008 o la finalità di persecuzione o di discriminazione con condotta emulativa o pretestuosa di cui si parla nella sentenza n. 21028/2008), con conseguente evento lesivo della salute o della personalità del dipendente e la esistenza di un nesso eziologico fra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio alla integrità psico- fisica del lavoratore (cfr. sempre la precitata giurisprudenza; v. anche nello stesso senso Corte Appello Bologna, Sez. lav. 11 aprile 2009).

In particolare il ricorso di primo grado non contiene alcuna allegazione fattuale in ordine all’elemento finalistico che rappresenta – come visto – uno degli elementi essenziali del c.d. mobbing.”

I giudici bolognesi deducono quindi che il Tribunale di Forlì, ravvisando nella condotta posta in essere dalla Banca gli estremi del c.d. mobbing ha violato il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, atteso che certamente il Giudice può dare alla domanda della parte una qualificazione giuridica diversa da quella data da tale parte; può interpretare il titolo su cui si fonda la controversia; può applicare norme di legge diverse da quelle invocate, fermi però restando i fatti allegati a fondamento di tale domanda “e ciò in quanto (ci sia consentita l’espressione) l’allegazione di tali fatti è monopolio esclusivo della parte”.

ULTRAPETIZIONE

La Corted’Appello, dopo aver  richiamato  alcune decisioni in materia di ultrapetizione (Cass. n. 6476/1997; Cass. n. 9176/1996; Cass. n. 3936/2002; Cass. n. 17610/2004; Cass. n. 8519/2006; Cass. n. 10922/2005; Cass. n. 17610/2004; Cass. n. 15053/2007; Cass. n. 15053/2007; Cass. n. 12402/2007; Cass. n. 15925/2007) deduce che il Giudice di primo grado, ponendo a fondamento della sua decisione i fatti costitutivi di una condotta mobbizzante che non erano mai stati allegati nel proposto ricorso, ha impedito  il pieno esplicarsi del diritto di difesa della Banca convenuta/ appellante principale “atteso che tale diritto di difesa – con relativo onere probatorio – si atteggia diversamente a seconda che sia dedotta la specifica violazione della fattispecie dell’art. 2103 c.c. o la violazione ( sub specie di condotta mobbizzzante) dell’art. 2087 c.c..”: di qui la fondatezza del motivo dell’appello della Banca in esame.

Prosegue la sentenza affermando che la stessa giurisprudenza di legittimità sopra richiamata in materia di qualificazione giuridica del c.d.mobbingcontiene affermazioni, condivise da queste Corte di Appello, che si ritiene confermino la fondatezza del motivo dell’appello.

DISTINZIONE TRA CONDOTTA MOBBIZZANTE E DEQUALIFICAZIONE

“Si intende, in particolare, fare riferimento alla decisione n. 22858 del 2008 della Corte di Cassazione che, dopo avere affermato che il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico, attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi) sorretti dalla volontà di perseguire o emarginare il dipendente stesso, ha specificato che lo specifico intento che caratterizza la condotta mobbizzante e la sua protrazione nel tempo lo distinguono dai singoli atti illegittimi, quali la mera dequalificazione ex art. 2103 c.c. ed il fondamento della sua illegittimità è costituito dall’obbligo datoriale ex art. 2087 c.c. di adottare le misure necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.”

Proprio sulla base di tale distinzione la Corte afferma che la domanda proposta dal ricorrente diretta ad